Rabi Ouenniche insieme a Zineb Saaid sono i traduttori dall’italiano all’arabo del saggio di Pietro Basso e Fabio Perocco ضد الإسلاموفوبيا pubblicato dalla casa editrice giordana Fadaat.
Nel nostro approfondimento su questo libro, di cui ribadiamo l’importanza nel panorama editoriale che di occupa di islamofobia, abbiamo contattato sia l’editore, Jehad Abu Hashish, sia uno degli autori, Pietro Basso proponendovi le nostre brevi interviste. Ci è parso quindi naturale rivolgere qualche domanda anche a uno degli autori, Rabi Ouenniche.
1) Rabi, tu sei un traduttore e sei anche un cittadino tunisino che vive in Italia. Il tema dell’islamofobia ti riguarda da vicino, è per questo che hai accettato di tradurre il saggio di Basso e Perocco in arabo?
Ho sempre creduto che ognuno, nel suo piccolo e nel limite delle sue possibilità, debba dare un contributo per fronteggiare, arginare e svelare quello che possiamo chiamare l’assoggettamento della forza lavoro viva per mano del capitale. L’attuazione di questa relazione di sfruttamento necessita di tutta una serie di strumenti e strategie che P. Basso e F. Perocco hanno ampiamente e lucidamente chiarito e smantellato in questo testo contro l’islamofobia e l’arabofobia. Con grande piacere ho accettato di svolgere questo lavoro di traduzione assieme a Zineb Saaid. Per me non si è trattato di quel tipo di lavoro di traduzione che necessita un approccio di tipo puramente letterario, è invece un’occasione per avvicinare i proletari del mondo arabo a quelli dell’Occidente e viceversa, e spiegare ai molti arabi che dall’occidente non arrivano solo bombe o caricature contro il profeta ma una mano fraterna e sincera. Si tratta di una questione che va ben oltre la pura ricerca terminologica per una “bella” traduzione.
2) Come è avvenuta la scelta della casa editrice a cui proporre la traduzione?
Relativamente alla casa editrice non è stata una cosa semplicissima. Inizialmente ci siamo affidati a un contatto in Qatar e dopo un anno circa di scambio e-mail la cosa non è andata a buon fine per motivi relativi alla programmazione interna di questa organizzazione, di certo non relativi ai contenuti del libro che sono stati percepiti di grande interesse. Poi Zineb riceve un giorno, da parte di un suo collega giornalista, il contatto di Jehad Abu Hashish, e nel giro di qualche mese le tipografie di Dar Fadaat iniziarono la stampa del libro. E’stato bello ricevere la foto della copertina della prima bozza.
3) Quando si inizia una traduzione si cerca di mettersi nei panni dell’autore per comprendere meglio il messaggio da tradurre, mentre traducevi hai pensato anche alla reazione del lettore arabo dinanzi alle analisi contenute nel libro?
Devo ammettere che il fatto che i due autori fossero i miei docenti e che avessi studiato e approfondito il loro pensiero, nel tradurre il loro saggio non ho avuto molti dubbi relativamente al reale messaggio che intendessero trasmettere attraverso determinate affermazioni. Certo, in diversi passaggi del saggio immaginavo qualche possibile reazione di stupore da parte di un lettore arabo di fronte alla qualità di difesa degli immigrati e del mondo arabo e del forte attacco contro i poteri forti e dominanti dell’occidente da parte di P. Basso e F. Perocco. E sarei felice se questo accadesse realmente perché non farà altro che rafforzare la fiducia tra persone appartenenti alla stessa classe sociale, cosa importante, nonostante siano di nazionalità differenti, cosa meno importante.
Sicuramente nelle fasi finali del lavoro di traduzione è stato ampiamente dedicato spazio a dei ritocchi per rendere il testo il più arabo possibile, cioè chi lo legge deve percepirlo il meno possibile come un testo tradotto.
4) Quali sono le difficoltà che hai incontrato nel tradurre in arabo termini contemporanei spesso coniati dagli stessi autori?
Mi viene in mente il detto “traduttore traditore”. È da registrare che una delle capacità evidenti dei due autori è sicuramente quella di trattare temi complessi e articolati con un linguaggio certamente di un certo spessore ma garantendo sempre un linguaggio chiaro e scorrevole, è una qualità rara tra chi scrive in modo scientifico.
I due autori, grazie anche alla loro professione, ossia studiano scientificamente le problematiche sociali, sono “obbligati” ad usare il termine o la nozione scientificamente adatta a quel determinato fenomeno sociale, e quando lo spazio semantico si dimostra carente o particolarmente povero loro, con grande capacità professionale, hanno saputo come individuare e adottare il termine adatto.
In ogni caso le difficoltà nel tradurre certe terminologie e nozioni non sono mancate. Terminologie come “parassitismo”, “piccoli accumulatori” o la nozione “di religione musulmana” non coincide esattamente con il termine “musulmano”. Abbiamo riflettuto a lungo soprattutto sui due termini principali, trattando le migrazioni, perché evidentemente dietro due semplici lettere la “e” in emigrati” e la “i” in immigrati c’è tutto un pensiero specifico e una determinata presa di posizione.
5) In alcuni paesi arabi, come l’Egitto, è ben evidente la necessità della formazione di una nuova generazione di professionisti della traduzione, è così anche in Tunisia?
Anche in Tunisia la situazione non è così differente da quella egiziana. In ogni caso, più che formare una nuova generazione di professionisti della traduzione, mi verrebbe da dire che bisogna supportare quei traduttori già esistenti e della cui bravura e serietà nessuno può dubitare, ma che sono lasciati da soli, a svolgere lavori singolarmente, senza nessuna strategia di stato, senza organizzazione a livello statale e multi-statale, se guardiamo al mondo arabo nella sua interezza. Ricordiamoci, noi nel mondo arabo, di quel Movimento delle traduzioni che connotò il periodo Omayyade e Abbaside. Tradurre è anche visione di società, è strategia di stato nella misura in cui le idee tradotte, importate possano essere pensieri da coltivare, inneschi da ampliare.
Intervista realizzata da Pina Fioretti
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