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Fatema Mernissi: in ogni sua opera la sua vita, una rivoluzione nella rivoluzione

Quando dopo più di duecento pagine di intriganti storie familiari intervallate da citazioni letterarie e storiche giungiamo alle ultime righe de La terrazza proibita abbiamo per l’ennesima volta la sensazione di non avere capito nulla di Fatema Mernissi.

Qualcosa di simile avviene dopo ogni suo libro.

La sociologa marocchina, della quale ricorre il settimo anniversario della morte, non perde occasione per stupirci e per rovesciare le situazioni che a noi paiono più ovvie, conducendoci a una visione del mondo apparentemente nuova, che in realtà nuova non è, poiché non era che la nostra pigrizia a determinare le fatue certezze che credevamo di possedere.

Chi l’ha conosciuta la descrive come una donna sui generis, con una grande capacità di attirare le persone, una professoressa universitaria che non si sporca quasi mai di accademismo, ma che a volte lo usa per stravolgerlo. Una rivoluzionaria, anche per i rivoluzionari stessi, femminista e musulmana, amante del viaggio ma legata alla sua terra, tanto che il luogo in cui le piaceva viaggiare di più era forse proprio la sua terra.

In ogni sua opera, dopo aver menzionato qualche aneddoto relativo alla sua personale esperienza di vita, dopo aver parlato con orgoglio della storia culturale islamica, Fatema Mernissi puntualmente tende la corda di quello stesso arco con cui ha distribuito abbondantemente le più diverse considerazioni per lanciare una frecciata antipatriottica e antidogmatica che capovolge quella visione idilliaca. Sovente avviene il contrario. E sovente dopo aver parlato della potenza dell’Occidente tramortisce quello stesso Occidente con un colpo da maestra.

 

In Donne del profeta, la condizione femminile nell’Islam ricorda di come la scuola coranica che aveva frequentato e temuto le desse sensazioni assai differenti dalla poetica visione che aveva sua nonna riguardo alla religione, e alterna aspre critiche al truce dogmatismo religioso del califfo ‘Omar e di molti altri uomini a poetiche caratterizzazioni di Maometto, che paiono ammorbidire anche i suoi detrattori. Arriva a dire, senza timore alcuno, che, quando al profeta musulmano fu rivelato, stando al credo islamico, il famoso versetto 34 della sura 4, egli non era affatto d’accordo con Allah. Ci sorprende ancora di più, scrivendo: “È

possibile che l’Hijab, il tentativo di velare la donna, oggi rivendicato come fondamento dell’identità musulmana, non sia in effetti che l’espressione stessa della mentalità preislamica”.

 

Ne Le sultane dimenticate, donne capi di Stato nell’Islam ricorda di come sempre la nonna affermasse che nel mondo musulmano per non prendere le botte bisognasse tacere. Nello stesso tempo ci narra una vicenda di potere femminile nell’Islam che l’Occidente ha travisato, una vicenda che ha come protagoniste alcune donne, turche, persiane e comunque non arabe, che hanno governato l’Egitto, lo Yemen, la Persia mongola, l’Indonesia, spesso colpevoli delle stesse mancanze dei colleghi uomini. Non dà risposte scontate del tipo: il patriarcato, la religione e l’ignoranza hanno deciso l’esiguità di quel numero. Compie una lucida analisi storica.

 

In Chahrazad non è marocchina rievoca l’infanzia a Fes, per stravolgere l’idea che il genio della lampada sia una figura bonaria: “Io non ho bisogno del Khatem al-hikma, la bacchetta magica, perché la sua forza è quella del mio cervello”, dice, ricordando come l’energia femminile sia quella che contribuisce al verificarsi dei veri miracoli. Tentando di delineare un quadro sociale della condizione femminile nel suo paese, afferma che la lotta all’analfabetismo sarà quella decisiva, non la lotta contro l’Occidente o contro la religione, e stupendo un po’ tutti conclude che il vero modello da seguire non è quello europeo o americano, ma quello giapponese, arrivando a dire: “È un peccato che Ibn Battuta non abbia visitato il Giappone”.

 

Ne L’harem e l’occidente ricorda inizialmente una storia tratta da “Le Mille e una notte” che le aveva raccontato la nonna e che un suo amico menzionava sempre per farle comprendere quanto fossero deboli gli uomini musulmani che tenevano rinchiuse le proprie donne. Proseguendo su questa linea di pensiero, intitola poi un capitolo “In Occidente le donne intelligenti sono brutte” e un altro, l’ultimo, “L’harem delle donne occidentali: la taglia 42”. In maniera dissacrante lo conclude con alcune frasi che terminano con il punto esclamativo e con il punto interrogativo, frasi che non vogliamo citare per non privare il lettore della loro sorprendente e trasgressiva efficacia.

 

In Islam e democrazia, la paura della modernità ricorre di nuovo ai ricordi d’infanzia per illustrare, senza la paura che aveva invece da piccola, la poca tolleranza dei regimi musulmani. E afferma però che il destino di una donna nel mondo arabo è assai peggiore se quest’ultimo è messo a ferro e fuoco dalle forze straniere, forze democratiche che spesso hanno ucciso per esportare la democrazia. Nello stesso tempo condanna lo sperpero di denaro per creare scuole coraniche e l’assenza di luoghi di cultura che possano, come in Occidente, formare delle classi di lavoratori preparati. Menziona però Farid al-Din ‘Attar, il celebre mistico musulmano vissuto tra il XII e il XIII secolo, definendolo il suo sufi preferito, perché spiega che il “noi” non è diverso dal “voi”.

 

In Karawan, dal deserto al web distrugge lo stereotipo secondo il quale “l’Occidente tecnologicamente avanzato è superiore a un Oriente indebolito dall’analfabetismo e fermo all’Età della pietra”, e cita esempi di donne che pur analfabete hanno esaltato l’arte del tappeto e della pittura, facendoci viaggiare nei luoghi dove vivono o hanno vissuto, un Marocco che non è quello che troviamo nelle guide turistiche, un Marocco in cui i giovani sono molto più interessati alla conoscenza delle lingue straniere che ai veli e alle barbe. Afferma che per i sufi, tra i quali cita questa volta il famoso mistico musulmano del XIII secolo Ibn ‘Arabi, il modo migliore di conoscersi è incontrare gli stranieri. Stranieri che esistono anche tra i cittadini dello stesso Marocco quando si usa la

parola “berberi”, barbari, anziché “amazigh”, persona libera.

 

Ne Le 51 parole dell’amore, l’amore nell’Islam dal Medioevo al digitale, dopo aver ricordato che a Fes negli anni cinquanta del secolo scorso il modello di femminilità implicava non solo il velo, ma ancora di più una serie di veli simbolici, sottolinea che invece all’inizio del nuovo millennio la società musulmana scoppia di salute, perché “c’è chi vuole ancora velarsi e c’è chi si spoglia e regola l’orologio sull’ora di Parigi”. E conclude che soltanto il messaggio di un poeta musulmano dell’XI secolo, Ibn Hazm, sull’amore altruistico può frenare il consumismo malato dell’Occidente, altra piaga che non si cita quasi mai.

 

Ma come già menzionato all’inizio è ne La terrazza proibita che ci sentiamo più spiazzati. Il romanzo autobiografico si apre con il ricordo delle parole di suo padre secondo cui non era un caso che Allah avesse separato uomini e donne e si conclude con la cacciata di un bambino dal bagno delle donne in cui fino a una certa età poteva essere ospitato.

Il ragazzino racconta a lei bambina della successiva noiosissima esperienza nel bagno degli uomini, come a dire: forse le donne si

divertono anche di più a non avere a che fare con maschi adulti che non hanno alcun intelligente argomento di conversazione.

 

Non può che venirci in mente un aneddoto raccontatoci da Elisabetta Bartuli, che ha incrociato in più di un’occasione il suo destino

professionale e di vita con quelli di Fatema Mernissi, ad esempio curando la pubblicazione italiana di Karawan (di questo libro anche tutta la traduzione dal francese), Islam e democrazia e Sole nero, raccolta di scritti sugli anni di piombo in Marocco, la cui introduzione è firmata dalla sociologa marocchina. Durante una presentazione, un interlocutore, stupito del fatto che Fatema Mernissi raccontasse storie gradevoli e simpatiche sul Marocco e il mondo musulmano, le disse qualcosa del

tipo: “Sì... non credo proprio che possa essere tutto così rose e fiori, come lo racconta lei...”, al che Fatema Mernissi replicò: “Ovviamente... E perché dunque dovrei raccontarle quello che lei pensa di sapere già? Io cerco di raccontare altro, quello che lei non sa”. 

 

Testo di Luca Calistri

 

 

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