Ci si può definire palestinese senza ricordarsi più le strade che portano alla propria città?
Ci si può definire palestinese sebbene non si abbia nemmeno un lontano e vago ricordo della propria terra?
Murid al-Barghuthi sembra non avere dubbi.
«Turisti?», chiede un soldato all’ingresso di Gerusalemme a Murid e suo figlio Tamìm il quale, appena ventenne, è riuscito a ottenere il permesso per tornare in Palestina per la prima volta da quando aveva appena cinque mesi. La domanda non è affatto minacciosa, anzi, è una sincera curiosità del soldato scaturita dall’aver notato la pesante macchina fotografica appesa al collo di Tamìm. Ma non c’è esitazione nella reazione di Murid. Nessun dubbio o incertezza trapela dalla sua risposta, la quale cade secca e concisa: «No, siamo di qui».
In questa sua seconda opera autobiografica, Sono nato lì. Sono nato qui – tradotta in italiano da Erica Preti e pubblicata nel 2021 da Edizioni Q – lo scrittore e poeta palestinese ci racconta uno dei numerosi viaggi di ritorno nella sua terra, questa volta, per la prima volta, insieme a suo figlio.
La storia di questo viaggio viene frammentata, e ci viene raccontata piuttosto attraverso le sensazioni e le riflessioni del poeta. La narrazione si presenta quasi come un flusso di coscienza nel quale al-Barghuthi rievoca diverse storie, flashback e flashforward di altri ritorni, sempre difficili, sempre alla ricerca di sotterfugi – spesso al limite del credibile e del verosimile – per eludere i controlli e riuscire a raggiungere la sua città. La sua storia si intreccia con quella di amici, parenti e sconosciuti incontrati casualmente nelle sue avventure. Ogni check-point può diventare un’avventura incredibile degna di un romanzo intero, e invece sono solo frammenti di una quotidianità sotto occupazione militare.
Tra le storie più straordinarie che al-Barghuthi ci racconta, c'è quella in cui dovettero sollevare il suo taxi con una gru (con lui e tutti gli altri dentro!) e trasportarlo da una parte all’altra di un enorme fosso, creato dalle bombe dell’esercito israeliano proprio per evitare il passaggio dei palestinesi. Mentre ci racconta questa storia, il nostro fiato rimane sospeso insieme a lui sulla gru, in quell’equilibrio precario:
Lo spazio in cui siamo sospesi è il vuoto dove noi sette dondoliamo, ed è come il nostro esilio da questa terra. È la nostra volontà repressa, il tentativo in cui coraggio e paura si mescolano per imporre quella volontà con l’inganno e l’astuzia. Questa bolla d’aria è essa stessa un’occupazione d’acciaio. È la rappresentazione del vagabondare dei palestinesi nell’aria di altri paesi. Cerchiamo riparo, fuori dalla nostra terra, nell’aria del mondo. Anneghiamo sulle sommità. Anneghiamo verso l’alto.
Anche un evento tanto agghiacciante passa quasi in secondo piano. Il poeta ci racconta questa incredibile storia, ma non è l’evento in sé il vero protagonista. Esso è piuttosto un pretesto per costruire la metafora che andrà a presentare i temi che il poeta vuole narrare: l’esilio, l’occupazione e la resistenza. Sono nato lì. Sono nato qui, infatti, non può che essere raccontato attraverso questi temi.
L’essenza dell’esilio si concretizza nelle parole del fratello di al-Barghuthi: «Comincio a odiare l’amore». Perché l’amore per ciò che è distante fa bruciare ancora di più il dolore della lontananza e della separazione forzata, tanto dalla propria terra quanto dalla propria famiglia. Il dolore di non riconoscere più le strade della propria città, il dolore di non poter abbracciare la propria madre, di non poter stare vicino alla propria moglie nei momenti difficili, e di non poter vedere il proprio figlio crescere.
La compattezza della famiglia contrasta col fatto che è dispersa in tutto il mondo.
Il dolore dell’esilio, lamenta il poeta, si presenta agli occhi degli altri come una banale nostalgia. Eppure, ci ricorda, il suo è un esilio forzato, imposto da uno stato che occupa la sua terra e la divide. L’occupazione non divide soltanto famiglie, divide tutto: l’occupazione è un grande muro.
Questo muro l’ultima volta non c’era. Notizie, condanne, dati ufficiali su quanto è alto, lungo e largo, fotografie e immagini televisive non possono rendere la sua bruttezza come quando lo si guarda di persona. […] Questo muro cadrà, un giorno, ma in questo momento di tristezza personale lo vedo forte e immortale […]. Poi dico a me stesso: questo muro è più piccolo, quello più grande è ‘l’occupazione’.
Al-Barghuthi cerca di darci un assaggio di quella sensazione di impotenza che si ha guardando quei mastodontici e minacciosi muri. Solo passeggiando vicino, soltanto vedendo una persona camminarci accanto, è possibile coglierne tutto l’orrore. Eppure, non è questo l’aspetto peggiore dell’occupazione:
Ciò che non si può perdonare all’occupazione militare è che limiti i sogni delle sue vittime. Li scaglia tutti, o quasi tutti, verso il baratro della lista dei piccoli desideri o dei “sogni” più elementari. Ogni palestinese ha la volontà occupata.
I sogni dei palestinesi, ci spiega, si limitano alla speranza di sopravvivere al giorno dopo senza ulteriore morte, dolore e ingiustizia. Ma allo stesso tempo al-Barghuthi ci ammonisce, parla direttamente a noi lettori e lettrici:
E visto che sono qui per ricordare, mi rivolgo ai volenterosi in ascolto: i sogni diventano molto più pericolosi quando sono sogni banali.
Sogni pericolosi di un popolo, quello palestinese, che senza armi e senza alcun potere contrattuale riesce comunque a fare una gran paura. Israele, ci spiega è:
[…] uno Stato che possiede oltre duecento testate nucleari, che si avvale di oltre seicento checkpoint e posti di controllo, che sta costruendo intorno a noi un muro di oltre 780 chilometri, che detiene nelle sue carceri più di undicimila prigionieri, che controlla ogni entrata, confine, passaggio del nostro paese, del quale controlla, di fatto, il mare e l’aria, è uno Stato, infine, che emana leggi fondate su una credenza inamovibile, non smossa nemmeno dalla successione delle vittorie militari, una sentenza la cui sostanza è la paura che questo potente Stato ha di… noi.
Sarà questa paura che i palestinesi suscitano a creare quella realtà distorta che l’autore nota nell’immaginario di molti in Occidente. Tra le difficoltà che un palestinese affronta, soprattutto in esilio, vi è infatti la consapevolezza che per alcuni è davvero il popolo palestinese ad essere pericoloso. Al-Barghuthi ci spiega quanto sia difficile e frustrante il confronto con coloro che, spinti dai media, hanno finito per credere ad una realtà così deformata da essere l’opposto di quello che è.
Molti giornalisti occidentali, che con consapevole perfidia ignorano l’occupazione israeliana, mi hanno chiesto se il popolo palestinese fosse davvero interessato a convivere con gli ebrei. Ho risposto che noi arabi abbiamo convissuto con loro per centinaia di anni, in Palestina, nei paesi arabi e in Andalusia, e che proprio l’Europa, che ci giudica e dà a noi la colpa, non è stata capace di convivere con loro. È stata l’Europa ad averli mandati, senza pietà, a milioni, nei forni crematori. Oggi, però, ci viene chiesto, fin dall’inizio dell’occupazione militare dei nostri territori, di convivere con i loro carri armati dentro le nostre camere da letto! Chiedo a tutti loro di farmi conoscere anche solo una persona, a questo mondo, capace di vivere con un carro armato nella propria stanza.
In queste parole si incarna tutta la rabbia e la frustrazione di un palestinese osservatore delle storture e manipolazioni della storia operate dallo stato di Israele, e perpetuate e legittimate dagli stati occidentali.
Ma tra le preoccupazioni del poeta c’è anche una questione apparentemente innocua. L’occupazione, ci racconta, non uccide soltanto persone innocenti, non uccide soltanto sogni. Al-Barghuthi ci mette in guardia da qualcosa di ancora più spaventoso, quello che lui chiama “omicidio linguistico”: la scomparsa della parola Palestina, sostituita da West Bank oppure da Cisgiordania.
E io, ogni qual volta sento l’espressione “Cisgiordania”, penso al pericolo rappresentato dall’inquinamento linguistico, attuato di proposito, portatore dell’uccisione del nome Palestina.
Questo omicidio, di cui siamo colpevoli tutti noi, si accompagna all’omicidio di una storia e di una cultura intera. Al-Barghuthi non punta il dito soltanto verso lo stato di Israele e i media occidentali, ma individua tra i colpevoli anche gli stessi palestinesi. La rabbia del poeta, infatti, è rivolta anche all’Autorità Palestinese, ormai al servizio dello stato che occupa, e alla profonda e disgustosa corruzione delle istituzioni.
Dove c’è una Palestina occupata, che soffre – ci ricorda al-Barghuthi – c’è allo stesso tempo una Palestina fiera e orgogliosa, che resiste. Ogni giorno è un atto di resistenza, la vita stessa in Palestina è un atto di resistenza. E per resistere ci vuole tanta forza, quanta fortuna e inventiva. Bisogna attraversare e aggirare i check-point con tutti gli stratagemmi possibili e immaginabili.
È piacevole la sensazione di essere più furbi dell’occupazione. Non siamo che scrittori, resistiamo con questi giochetti […].
La cosa più importante che questo romanzo ci vuole comunicare è che la Palestina è occupazione, ma non si riduce ad essa. La Palestina non è soltanto una “zona di guerra”, come il resto del mondo sembra pensare. La Palestina è l’odore di un buon caffè al momento giusto, è la raccolta delle olive, è l’accoglienza di amici e parenti, è il musakhan a pranzo, è storia, è cultura. La Palestina è anche bellezza.
L’oppresso può vincere solo se la sua essenza è più bella di quella dell’oppressore.
Tra dolore e ironia, al-Barghuthi ci racconta la sua Palestina. “Sua” perché è nato lì – quel “lì” che soltanto in rare occasioni, quegli sporadici ritorni nella sua terra, può essere un “qui”. “Sua” perché ce la racconta attraverso le sue storie, i suoi ricordi e le sue riflessioni. È un romanzo che riesce a trasmettere tutta la frustrazione e la stanchezza della quotidianità dei palestinesi in Palestina. Le attese, i soprusi dei soldati e le ingiustizie che durano da ormai troppo tempo. Ma ci trasmette anche la fierezza di un popolo che, sebbene subisca ogni giorno, continua a resistere.
Sono nato lì. Sono nato qui racconta con maestria, tra prosa e versi, storie di gioia e dolore, umiliazione e sollievo allo stesso tempo. Siamo spettatori di scorci di quotidianità tanto ordinari quanto straordinari, caratteristici soltanto di una terra complessa come la Palestina.
Articolo di Aurora Magliozzi
Dettagli bibliografici:
Titolo: Sono nato qui, sono nato lì
Autore: Murid Barghuthi
Casa editrice: Edizioni Q
ISBN: 9788897831457
Acquista la tua copia scrivendo a info@ararbook.it o sul sito di Edizioni Q
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Wasim Dahmash (mercoledì, 09 febbraio 2022 19:15)
Grazie Aurora Magliozzi della bella recensione.
Grazie ad Arabook.it per l'ospitalità e tanto altro!
Luisa Morgantini (domenica, 13 febbraio 2022)
E grazie sempre a Wasim Damash per averci fatto conoscere tanto mondo arabo e paledtinese . Grazie Aurora e Giuseppina e Arab book